martedì 27 marzo 2012

Lavoro:cosa cambia da ora?

“E’ una buona riforma, rappresenta
 un punto di equilibrio rispetto a molte tensioni e interessi diversi”. Difende 
la riforma del lavoro il ministro del Welfare, Elsa Fornero, che sabato è intervenuto nel workshop di Confcommercio a
Cernobbio. Anche se è rimasto “un po’ di rammarico per una riforma non 
pienamente condivisa”.

Il Consiglio dei Ministri ha varato il testo che adesso passerà in Parlamento. Cinque

 i punti principali - contratti, ammortizzatori, flessibilità in uscita, politiche attive
 e servizi per il lavoro – che impatteranno in maniera decisa sulla vita di ogni lavoratore italiano nei prossimi anni. L’intento del governo, che ha lavorato a
 lungo con le parti sociali, è quello di rendere più stabili i contratti di lavoro.
 Rimane fermamente contraria la Cgil che ha annunciato uno sciopero generale
 di 16 ore: “Siamo di fronte a un governo che ha scelto una strada che rende 
dispari i diritti”, ha commentato il segretario generale, Susanna Camusso. 

Punti di vista differenti per il pacchetto di nuove norme che avranno un impatto concreto sul mercato del lavoro. 
Cerchiamo di capire cosa cambierà per i diversi tipi di lavoratori. 

Per prima cosa gli stage non si potranno più attivare dopo il periodo di formazione (laurea, dottorati o master universitari). I tirocini, quindi, saranno consentiti

fino alla laurea. Dopo, se un giovane laureato entra in contatto con un’azienda, 
questa dovrà retribuirlo utilizzando altri tipi di rapporti come collaborazioni o 
contratti a tempo determinato. E’ importante sottolineare comelo stage non può 
più essere lavoro gratuito, mentre sino ad ora le aziende abusavano di questo 
esercizio nei confronti dei giovani. 

Per i lavoratori che utilizzano una partita Iva, sono previste dei cambiamenti 

che vogliono limitare l’uso improprio di questa forma di collaborazione. E’ una
 ferma volontà del governo “quella di introdurre vincoli stringenti ed efficaci” soprattutto sulle collaborazioni a progetto e sui cosiddetti contratti “a chiamata”
Un modo per colpire eventuali abusi e le forme più comuni di aggiramento 
delle norme sulla flessibilità, una su tutte, appunto, le partite Iva. Per scoraggiare questa forma di lavoro dipendente, il governo predisporrà un limite di 6 mesi
 dopo il quale l’azienda sarà costretta o a considerare queste collaborazioni come rapporto di lavoro a tempo indeterminato (con conseguente pagamento di 
contributi), oppure sarà obbligata a pagare una sanzione paragonabile ai 
contributi da versare allo Stato. 

Novità anche per i lavoratori con contratti a tempo determinato che avranno più possibilità di essere assunti in maniera definitiva. “Auspicavamo che il contratto dominante per l’ingresso nel mondo del lavoro fosse quello a tempo indeterminato”,

 ha detto il ministro Fornero dal summit di Cernobbio. “Ma sappiamo che ci sono esigenze organizzative relative all’attività di impresa che richiedono anche altri 
tipi di contratto e di flessibilità e questi non li abbiamo cancellati”. Ad ogni modo,
 la riforma mira a proprio disincentivare i contratti a termine. Innanzitutto viene assicurato il contrasto alla loro reiterazione che se dovesse diventare superiore ai 36 mesi, porterà alla stabilizzazione automatica del rapporto che diverrebbe a tempo indeterminato. In poche parole, oltre i tre anni di contratti a tempo determinato, scatterà l’assunzione definitiva. 

Dall’assunzione al licenziamento. L’articolo 18 è l’altro punto cruciale della 

riforma, ha sicuramente soddisfatto alcuni più di altri: Emma Marcegalia, 
presidente uscente di Confindustria, è molto favorevole alle modifiche, come
 anche Pdl e Terzo Polo; alcuni sindacati come Cisl e Uil sono piuttosto favorevoli, mentre completamente contrari sono sia il sindacato Ugl sia la Cgil. Ma cosa 
cambia per i lavoratori? Avranno meno possibilità di essere reintegrati in caso di licenziamento. Le modifiche non riguardano i licenziamenti discriminatori (se un lavoratore è stato licenziato per motivi sindacali i religiosi o di orientamento
 sessuale rimane il reintegro nel posto di lavoro, anche per le imprese con meno 
di 15 dipendenti), ma interessano quelli considerati disciplinari ed economici.
 Nel primo caso, se il lavoratore si rende colpevole di un reato sul luogo di lavoro
 o è particolarmente inefficiente e improduttivo a giudizio del datore di lavoro, può essere licenziato. Il governo ha ristretto i campi in cui è obbligatorio il reintegro nel caso in cui un giudice ritenga ingiusto questo licenziamento, sostituendolo con un indennizzo in denaro (dalle 15 alle 27 mensilità). 
Per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici, il nuovo articolo 18

 prevede che non ci sia reintegro obbligatorio per il lavoratore ma solo un’indennità economica, anche nel caso in cui un giudice decidesse per l’inesistenza 
di un “giustificato motivo oggettivo” per il licenziamento. 

L’ultimo punto importante affrontato dalla riforma sono gli ammortizzatori 

sociali. Prendiamo l’esempio di una famiglia in cui il padre (55 anni, impiegato) e il figlio (25 anni con un contratto da apprendista) rimangono senza lavoro. Con la riforma entra in gioco l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) che sarà estesa
 a tutti i soggetti coperti in caso di disoccupazione involontaria, sostituendo, in
 pratica, indennità attualmente operative come la mobilità, la disoccupazione non agricola ordinaria, quella di disoccupazione con requisiti ridotti e l’indennità
 speciale edile. E includerà anche gli apprendisti e gli artisti, fino a oggi esclusi dall’applicazione di qualsiasi strumento di sostegno al reddito. Padre e figlio, 
quindi, rientrano nel sostegno dell’Aspi, in quanto lavoratori dipendenti, a patto che abbiano 2 anni di anzianità assicurativa maturata e almeno 52 settimane di
 lavoro nell’ultimo biennio. Il sussidio avrà durata massima di 12 mesi per i 
lavoratori con meno di 55 anni, di 18 per quelli più anziani. Per quanto 
riguarda gli importi, l’assegno massimo sarà di 1.119 euro mensili. La nuova
 Aspi prevede trattamenti iniziali pressoché analoghi all’indennità di mobilità 
per le retribuzioni fino a 1.200 euro mensili, che si alzano per quelle di importo superiore. Inoltre, rimangono in vigore le tutele già consolidate (Cigo, Cigs, fondi 
di solidarietà) e gli strumenti di gestione degli esuberi strutturali.

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